Singolo rapporto carnale imposto alla moglie: legittima la condanna del marito

Sacrosanto parlare di violenza sessuale, soprattutto se il contesto è caratterizzato da una costante sopraffazione dell’uomo sulla donna

Singolo rapporto carnale imposto alla moglie: legittima la condanna del marito

Legittimo parlare di violenza sessuale se il singolo rapporto carnale si concretizza in un contesto caratterizzato dalla costante sopraffazione del marito sulla moglie.
Questa la presa di posizione dei giudici (sentenza numero 29655 del 25 agosto 2025 della Cassazione), i quali hanno condannato in via definitiva un uomo, punendolo con sette anni di reclusione e obbligandolo a versare 30mila euro di risarcimento alla consorte.
Scenario della disumana vicenda è la provincia pugliese, anzi, meglio, quattro mura domestiche in cui l’uomo agisce da ‘padre padrone’ nei confronti della consorte, con tanto di maltrattamenti e, soprattutto, di rapporto sessuale imposto, in un caso, nonostante il dissenso della donna.
A fronte di tale quadro, è sacrosanta, per i giudici di merito, la condanna dell’uomo, ritenuto colpevole di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale.
Col ricorso in Cassazione, però, il legale che difende l’uomo prova a mettere in discussione il reato di violenza sessuale, contestando l’attendibilità riconosciuta alle dichiarazioni della parte offesa costituitasi parte civile, alla luce di – presunte – contraddizioni emerse nel corso dell’esame della persona offesa – preda anche di un precario stato psicologico – e del clima conflittuale caratterizzante i rapporti tra marito e moglie e alla luce della perdurante autonoma scelta della parte offesa di continuare a recarsi, da sola, presso l’abitazione dell’uomo per avere rapporti intimi, dopo il singolo episodio di violenza.
Entrando ancora più nei dettagli, il legale, rammentato il| confine tra mancanza di consenso e manifestazione di dissenso rispetto all’atto sessuale, definisce, nella vicenda, né l’una né l’altra situazione ipotizzabili, trattandosi di rapporti sessuali tutti consensuali, a suo dire, come testimoniato anche da una dichiarazione della persona offesa, cioè “eravamo come fidanzati”.
In aggiunta, poi, il legale richiama quanto dichiarato dalla neurologa che ha avuto in cura la donna, ossia mancata rappresentazione, da parte della donna, di aggressività fisica subita per mano del marito e, inoltre, una sorta di costituzionale fragilità della donna stessa.
Per chiudere il cerchio, infine, il legale sostiene si possa almeno parlare di fatto di minore gravità, poché il rapporto tra moglie e marito è stato caratterizzato sempre da rapporti sessuali consenzienti, sicché oscuro resta il motivo per cui in una sola occasione l’uomo abbia fatto ricorso alla violenza per ottenere con tale mezzo ciò che gli era concesso sempre.
Per demolire il castello costruito dalla difesa, però, basta, secondo i magistrati di Cassazione, un dato, cioè il palese dissenso al rapporto sessuale manifestato mediante urla e pianto dalla persona offesa nello specifico episodio oggetto del processo.
Questo elemento è decisivo, poiché, ricordano i giudici di terzo grado, in tema di violenza sessuale, il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore scriminante, cioè non costituisce causa di non punibilità, quando sia provato che la persona offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, come appurato nella vicenda oggetto del processo, con conseguente compressione della sua capacita di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli.
Di conseguenza, deve essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell’autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, da parte della persona offesa, ai congiungimenti carnali.
Ragionando in questa prospettiva, i magistrati pongono in rilievo la natura vessatoria delle condotte poste in essere tra le mura domestiche dall’uomo nei confronti della moglie. E anche questo dettaglio è importante, perché, con riferimento alla mancanza di dissenso da parte della vittima, integra il reato di violenza sessuale, nella forma cosiddetta ‘per costrizione’, qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull’altrui liberta di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale, atteso che non esiste all’interno di detto rapporto un diritto all’amplesso, né conseguentemente il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale senza il consenso del partner.
Per maggiore chiarezza, poi, i giudici si soffermano sul concetto di intimidazione psicologica, che, spiegano, rimanda necessariamente al peculiare contesto spazio-temporale in cui si svolge l’azione, assumendo rilievo le contingenze specifiche che oltre a comprimere la capacità di reazione del soggetto passivo, ne limitino in concreto l’espressione di volontà. Difatti, non rileva neppure l’espressione manifesta del consenso della vittima allorquando la sua volontà venga coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi scaturirebbero dal rifiuto esplicito all’atto sessuale impostole quale forma di violenza indiretta.
A fronte del quadro probatorio delineato tra primo e secondo grado, è decisivo, secondo i giudici, il riferimento al contesto in cui si è consumato il reato di violenza sessuale, ossia un clima caratterizzato da costante sopraffazione da parte del marito sulla moglie, e, di conseguenza, del tutto inconsistenti risultano le doglianze della difesa dirette a rimarcare l’implicito consenso al rapporto sessuale desumibile dalla accondiscendenza finale della donna. Anche perché, ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, non ha, invero, valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa vittima agli atti sessuali.
Impossibile, quindi, anche parlare di fatto di minore gravità, proprio valutando il fatto, ossia mezzi, modalità esecutive e, soprattutto, grado di coartazione esercitato dall’uomo sulla moglie. In particolare, viene fatto riferimento al dissenso manifestato mediante urla e pianto dalla parte offesa, all’azione di immobilizzazione da parte dell’uomo, alle spregevoli modalità della condotta, modalità particolarmente violente e riprovevoli, poiché l’uomo aveva mantenuta ferma dai polsi la moglie e poi l’aveva penetrata, adoperando anche un deodorante spray.

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